Notizie storiche

(tratto da una pubblicazione dell’Amministrazione Comunale dell’aprile 1985 curata da Alverio Gualandris, Mario Maggi e Walter Barelli)

NOTE  STORICHE GENERALI
Per COMUNE (lat. Commune) si suole indicare quella caratteristica forma di governo autonomo cittadino apparsa nell’Europa occidentale dopo il mille, come risultato di un’associazione volontaria, temporanea e confermata da giuramento, fra cittadini o gruppi di essi, sviluppatasi poi gradualmente fino ad ottenere riconoscimenti giuridico-politici da un’autorità superiore (in Italia, dall’Imperatore), raggiungendo poi in Italia una vera e propria indipendenza di fatto (XIII-XIV sec.), per cui il Comune divenne una “civitas superiorem non recognoscens” ovverosia “una comunità di uomini liberi”.

Tappa storica fondamentale per quanto riguarda il riconoscimento dell’autonomia dal potere superiore è in Italia la Pace di Costanza (1183), in cui l’imperatore Federico I riconosceva al Comune il diritto di “regalie” (amministrazione autonoma della giustizia, libero godimento dei proventi d’imposte e tasse, facoltà di battere moneta) in cambio di una impegnativa assicurazione di fedeltà e di tributi vari, in realtà mai corrisposti.

Contemporaneamente, nella sua struttura interna il Comune italiano, sorto come Comune consolare, il cui ceto dirigente ancora piuttosto ristretto, è espressione dei piccoli feudatari o dei vari funzionari feudali e vescovili (giudici, notai, ecc.) e gruppi di borghesi (mercanti più ricchi), trova i suoi governanti nei consoli (in numero variabile da Comune a Comune).

Gli accaniti contrasti per la conquista del potere (lotte fra Guelfi e Ghibellini, fazioni e gruppi politici avversi) determinano la fine del Comune consolare, con la nomina di un Podestà, donde il nome di “Comune podestarile” a questa fase di sviluppo della vita comunale.

Il Podestà infatti, forestiero, e nominato solo per un anno, pur essendo naturalmente eletto dal gruppo politico più forte e in conformità ai propri interessi, non può sottrarsi dall’imporre un minimo di ordine e di disciplina ai moti delle passioni politiche cittadine. Il Podestà ha inoltre parte fondamentale nella definizione degli Statuti (cioè delle norme di diritto che regolano la vita del Comune) e per l’attuazione delle direttive politiche della città.

IL COMUNE DI PORLEZZA
(…) Nel XII secolo, Porlezza era ormai una “Curtis” abbastanza importante, posta com’era al centro di una zona in cui (verso est) si erano sviluppati, in progressione di tempo, altri piccoli “vici” e verso ovest, sulle rive settentrionali del lago, in una zona costiera molto limitata alle cui spalle si apre l’ampia valle del Soldo, si era costituita la comunità dei paesi

valsoldesi. Inoltre Porlezza era il capoluogo plebano di questo ampio territorio, e la sua chiesa parrocchiale, fra le tante che già in questo tempo erano sorte, vantava il titolo di “plebana”.

Nel XII secolo doveva già essere libero Comune, e il suo, a causa della natura e della posizione, doveva essere un Comune rurale, appartenente a quella categoria, cioè, che il Solmi definisce “intermedia”. All’epoca quindi della autonomie comunali (XI – XII sec.) questo capoluogo plebano costituiva un’originaria Comunità di Pieve, con il suo “consiglio generale”  e con una “pastura que tenetur per illos de Montagna plebis Porlezie”.

L’organizzazione di questo tipo di comunità è fondata su una magistratura centrale, dotata di poteri sovrani più o meno lati, che ha il nome di “capitaneus”, di “potestas”, di “rector” o di “vicarius”, assistita da un Consiglio formato dalla scelta delle rappresentanze dei singoli gruppi vicinali (consules, boni homines) e da un “parlamentum”o consiglio generale, formato dalla riunione periodica o straordinaria dei capifamiglia di tutta la Pieve.

Come libera comunità, la Pieve di Porlezza ebbe Statuti propri. Purtroppo, di questi non ci sono pervenuti gli originali e neppure si conosce la data dei primi Statuti della Comunità. Quelli pervenutici constano di 173 capitoli e furono compilati dal Podestà e dal Consiglio generale della Pieve entro l’anno 1338 ed entrarono in vigore il 1° di gennaio 1339; furono pubblicati solennemente in Porlezza il 12 agosto 1340. Nella introduzione si ordina “che si faci un libro de Statuti, nel quale si ponghino, e si inseriscano tutti gli Statuti della Pieve di Porlezza tanto novi, quanto antichi”; da ciò si può desumere che gli “antichi” dovevano risalire alle origini, o quasi, della libera comunità (XII sec. circa).

Seguendo i vari capitoli di queste leggi, è possibile ricostruire l’antico nucleo su cui l’autonomia comunale innesterà poi la sua nuova linfa trasformatrice.

L’Assemblea (“vicinantia” o “consilium generale”) costituisce la fonte di ogni competenza peculiare e più importante del Comune.

Naturalmente vi erano sempre degli ufficiali, ma originariamente soltanto in rappresentanza del signore. Per l’esistenza del Comune, il criterio fondamentale e decisivo non è l’esistenza dell’ufficiale, ma la “vicinantia”: soltanto attraverso la volontà assembleare era possibile una risoluzione del “comune et homines”. Se tutti dovevano i seguito restare obbligati all’osservanza di un tale decreto , erano naturalmente necessarie una partecipazione totalitaria e l’unanimità di voto. Ne deriva che la partecipazione alle assemblee non è soltanto un diritto, ma un dovere dei vicini, che pertanto erano tenuti a partecipare alle assemblee secondo il principio dell'”unus pro foco” (uno per famiglia).

Competenze della vicinanza erano anzitutto le decisioni circa la sua composizione personale ed i beni comuni. Essa ammetteva i nuovi vicini ed emanava decreti circa l’appartenenza al Comune; vendeva, donava, permutava i beni comuni; anche le modalità dell’usufrutto e dell’utilizzazione dei beni comuni erano determinate esclusivamente dalla “vicinantia”.

La “vicinantia” era convocata con invito emanato alle singole persone o attraverso il messo, oppure tramite il banditore, come pure mediante il suono della campana, percuotendo una “tabula” o una “maiola” o suonando una tromba (questo strumento era usato nel XIV sec. nella Pieve di Porlezza; “il suddetto sig. Bartolomeo podestà di Porlezza et della Pieve in esecutione delle dette lettere del pref. Magnif. Sig. Nostro, ha comandato à Martino Castello servitore, et trombetta della Pieve…”).

Per lo più l’assemblea si svolgeva in un luogo tradizionale: all’aperto, sulla piazza del villaggio o ad un angolo della strada.

Spesso davanti alla chiesa, e solo eccezionalmente nella chiesa stessa: per quanto ci riguarda, l’assemblea della Pieve di Porlezza si radunava davanti al “Palacio de Curte”.

La vicinanza, riunita in assemblea, espletava possibilmente lei stessa tutti gli affari: solo nei casi estremi si conferivano pieni poteri a singoli o più “missi”, “sindaci” o “procuratores”.

I singoli capi del villaggio, quanto i collegi di parecchi, erano chiamati “consoli”: essi solitamente erano due, raramente uno.

I poteri dei consoli erano limitati. La vicinanza si riservava ogni iniziativa, ed ai consoli era assegnato soltanto un determinato numero di incarichi fissati negli statuti sui quali essi prestavano giuramento allorché entravano in carica.

Questi compiti erano in primo luogo quelli di natura organizzativa: dovevano convocare le assemblee e dirigerle, organizzare gli annuali giri in campagna per il controllo dei confini, le processioni, le rogazioni. Nei piccoli Comuni amministravano anche la sostanza e le entrate, sorvegliavano  i beni comuni e riscuotevano multe ed imposte.

I Comuni maggiori avevano invece un ufficiale speciale per la cassa e la contabilità: il “canevarius” che il più delle volte era scelto fra il numero dei consoli.

Porlezza,  ampia comunità di Pieve, aveva per i compiti esattoriali il “canevarius”.

Inoltre, come risulta dai suoi statuti, nel 1340 aveva quattro consoli (uno per squadra), dodici consiglieri (che talvolta erano rinforzati da altrettanti aggiunti, soprattutto in qualche emergenza difficile) ed un numero imprecisato di campari (o servitori della Pieve).

Naturalmente, a capo della comunità c’era il Podestà, nominato dal “dominus” (il feudatario della Pieve), e che rimaneva in carica sei mesi (non di rado veniva riconfermato o rieletto).

A questo punto, è importante puntualizzare l’attenzione sui “vici” di Cima (o Lacima) e Tavordo (o Taurdo) che, pur appartenendo di fatto alla comunità plebana porlezzese, si reggevano autonomamente, come libere comunità a sé stanti. Cima, però, aveva statuti propri (XIV sec.). Tavordo invece si reggeva su statuti della comunità porlezzese.

I due Comuni nel 1928 verranno uniti con regio decreto al Comune di Porlezza.(…)


Chi desiderasse approfondire l’argomento può consultare presso la Biblioteca Comunale il volume “PORLEZZA – Storia-Arte-Statuti-Artisti-Documenti” – autore Alverio Gualandris (Attilio Sampietro Editore – Menaggio 2003).